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Patrizia Benedetta Fratus. INNO A VENERE

Patrizia Benedetta Fratus
INNO A VENERE

Dal 3 al 25 novembre 2024

Una mostra a cura di Barbara Pavan

in collaborazione con La rete di Daphne

con il Patrocinio di Comune di Iseo

Inno a Venere, proemio, la parte introduttiva di un orazione, l’inizio di una storia, da Lucrezio a Botticelli sempre Venere, neoplatonica rappresentazione di bellezza, colta nel nascere a nuova vita. Bellezza, nascita, altra storia, quella di Komal, e del tragico episodio che l’ha sfigurata parzialmente in volto e su buona parte del corpo, ma non è di questo che vogliamo parlare. Lei è giovanissima e ha deciso che non passerà la sua vita da vittima. Mi ha chiesto di raccontare la sua bellezza, di rendere le cicatrici della sua pelle una mappa, un altro modo di percorrere, farne proemio d’altra narrazione 

Grazie a Rete di Daphne è avvenuto il nostro incontro e sempre grazie a Rete di Daphne continua questo nostro percorso a sostegno di Komal. 

Patrizia Benedetta Fratus 

PATRIZIA BENEDETTA FRATUS ha dedicato anni a pratiche artistiche partecipate e relazionali, con particolare attenzione alle declinazioni della prevaricazione, in primis nei confronti del genere femminile. In questo terreno è germogliata la sua ricerca delle ragioni e delle dinamiche che sono alla radice della violenza – non solo verso il singolo individuo o gruppo etnico o comunità, ma anche nei confronti della natura – e che derivano da un costante processo di svilimento e desacralizzazione, di trasformazione del soggetto in oggetto; meccanismi generati, verosimilmente, da una successione di cesure e dualismi contrapposti – tra l’uomo e l’ambiente, tra natura e cultura, tra spirito e materia. Tutta la storia del pensiero occidentale – che caratterizza ormai in gran parte la cifra del mondo globalizzato – è, in effetti, una storia di prevaricazioni. La pratica artistica è per Fratus un atto della possibilità: se l’Arte non è parte integrante della vita e dunque in grado di agire e interagire per influire su di essa, per trasformarla, quale senso essa può ancora avere nell’era della comunicazione, dell’AI, della virtualizzazione del mondo? 

Per poterla cambiare, è necessario osservare la realtà da punti di vista differenti e divergenti e in questa visione dell’arte rientra INNO A VENERE, un percorso che si snoda tra opere che hanno nella possibilità e nella trasformazione il loro focus. 

Un racconto che si sviluppa intorno all’opera omonima, culminando in una riflessione sulla potenza del cambiamento, dell’evoluzione del pensiero e della visione – esistenziale, culturale, sociale, individuale e collettiva. Patrizia Fratus, attraverso questo corpus di opere, sovverte e ricompone il significato di bellezza e di sacro, dialogando con tutte le voci – anche quelle silenti – del passato e del presente, ridisegnando le coordinate future di una narrazione che non appartiene – se non in parte – ad alcuna delle storie già scritte, ma che si apre sempre e comunque a nuove possibilità, inaspettate ed inesplorate. 

Partendo da NAOS, una serie di vasi-scultura ibridi, dove nella commistione tra fili e terra, nelle forme femminili tonde e cave, emerge un’allusione all’archetipo della Grande Madre e un’eco di divinità arcaiche; opere in cui materia e spirito si riconciliano, che sembrano in ascolto della polifonia dell’Universo ma prendono corpo dalla creazione del gesto artistico che è profondamente umano. Il sacro abitava i templi antichi quanto il corpo femminile, attraversato dal trascendente nella sua possibilità di dare forma alla vita. La sacralità, scriveva Cristina Campo, risiede in quel vuoto estatico in cui si compie il destino, e Fratus, nel modellare i suoi vasi, rende palpabile questo senso di sacralità che appartiene a ogni vita. 

Il percorso continua con LEI ERA, un’installazione immersiva di centinaia di figure femminili in vetro soffiato, sospese a formare un soffitto di cristallo, termine con cui si indica convenzionalmente quella barriera invisibile che impedisce la piena emancipazione delle donne in particolare in percorsi di carriera e verso posizioni di potere. Fratus ci invita a sovvertire la nostra percezione della storia: cosa accade se quel soffitto si rivela in realtà fatto di una moltitudine di donne di cristallo? Il soffitto di cristallo non è qualcosa da rompere, ma una realtà da riscoprire e comprendere. La luce, che si riflette su queste figure in vetro, moltiplica le loro ombre, creando una narrazione collettiva che invita a superare i dualismi e le gerarchie imposte. La Storia, frammentata e mutilata di tante voci, si arricchisce qui di nuove prospettive, rivelando che non raramente siamo noi stesse il limite del nostro potenziale. 

Con INNO A VENERE, l’opera che dà il titolo alla mostra, l’artista ne reinventa il mito classico. Riprende qui la posa e gli attributi della famosa Nascita di Venere di Botticelli, ma ne sovverte il significato: la bellezza di questa Venere contemporanea non è più idealizzata e perfetta, ma reale, segnata da cicatrici che testimoniano le prove attraversate. I segni della vita diventano mappa e valore, mentre l’oro della bellezza mitologica lascia spazio a una patina che esalta l’autenticità del corpo femminile. La Venere di Fratus non è più un mito irraggiungibile, ma un paradigma di una bellezza diversa, radicata nell’esperienza umana e capace di riscrivere (o liberare dai) i canoni – anche estetici – del passato. 

Il processo di muta ovvero di trasformazione, essenziale in questa riflessione, emerge anche in PAROLE IN CORPO, due grandi sculture di carta filata, dove le parole stampate vengono destrutturate e rielaborate. La figura, in perenne divenire, è ibrida – donna, serpente, albero – in una metamorfosi che suggerisce una continua rinascita. La muta del serpente diventa simbolo di immortalità e di potenza femminile, richiamando antichi simboli sacri, dal bastone di Asclepio alla filosofia tantrica. 

Allude ad un’iconografia mutuata dalla mitologia classica – integralmente reinterpretata con nuovi significati – FACCIA A FACCIA, un’opera tessuta a uncino, che rappresenta una testa di Medusa senza volto, e che restituisce all’osservatore il riflesso di sé stesso. Guardandoci dentro, infatti, scopriamo la pluralità della nostra esistenza: siamo intrecci di elementi in continua trasformazione, simili a radici che si sviluppano in tutte le direzioni. La metamorfosi è in effetti questo, la coesistenza di possibilità diverse in una stessa vita, un processo dinamico che ci porta verso il cambiamento e la rinascita. 

Un tema che ritroviamo in POTREMMO, una scultura morbida che appare ripiegata su se stessa, evocativa della nostra incapacità di sostenerci e riconoscerci. È un invito alla consapevolezza, a liberarci dalle catene invisibili che ci limitano. 

La forza del cambiamento che è ampiamente raffigurata in DRAGA BIANCA, un grande arazzo che restituisce una narrazione femminile in risposta alla tradizionale lettura del drago nella leggendaria storia di San Giorgio; invertendo il paradigma di prevaricazione e annientamento della diversità, la Draga diventa qui simbolo di una nuova cosmogonia, una speranza di riconciliazione e di una una narrazione altra

Patrizia Benedetta Fratus

Artivista attiva da anni sulla scena nazionale ed internazionale, considera l’arte come strumento di cambiamento ed evoluzione individuali e collettivi, sociali e politici. Artista multimaterica, usa medium di scarto per avviare opere partecipate e relazionali coinvolgendo per la loro realizzazione, coloro che facendole ne diventano parte viva. Cerca nelle mappe dei linguaggi le radici dell’immaginario possibile oltre gli stereotipi. Nelle parole sta il potere di generare mondi, infiniti mondi. Intende la pratica artistica come strumento di sperimentazione intellettuale ed empirica di consapevolezza, autosufficienza e autodeterminazione, elementi necessari per l’emancipazione umana. Nata a Palosco nel 1960 si è formata all’Istituto Marangoni di Milano, lavorando poi nella sartoria del Teatro alla Scala. Nel 2004 debutta come artista a Parigi nella Galleria Edgar le Machand d’Art. Dal 2005 espone in gallerie in Italia e all’estero da Bergamo, a Brescia, a Milano, Londra e Parigi. Vince il Premio Nocivelli ed è finalista al Premio Cairo nel 2009. Realizza la prima “Cometumivuoi”, una bambola nata dalle continue sollecitazioni della cronaca di femminicidio. Dal 2012 lavora a progetti di arte relazionale e ambientale collaborando anche con case di accoglienza e scuole. Nel 2015 realizza l’opera monumentale d’arte relazionale “VivaVittoria” a Brescia. Ha esposto in Italia, Europa, Stati Uniti. 

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SEQUEL. MIRKO BEDUSSI, ALBERTO GOGLIO, NICOLA PEDRALI E GIUSEPPE RUMI

SEQUEL
MIRKO BEDUSSI, ALBERTO GOGLIO, NICOLA PEDRALI E GIUSEPPE RUMI

Dal 4 maggio al 9 giugno 2024

Una mostra a cura di Laura Dossi e Massimo Rossi (LovOglio APS)

con il Patrocinio di Comune di Iseo

Da sabato 4 maggio a domenica 9 giugno 2024

Sabato 4 maggio alle ore 16 presso l’Arsenale di Iseo si terrà il vernissage della mostra “SEQUEL”, una collettiva dei Maestri Mirko Bedussi (scultore), Alberto Goglio (pittore), Nicola Pedrali (scultore) e Giuseppe Rumi (pittore).

All’interno sono disponibili le card dei singoli artisti.

SEQUEL è il naturale proseguo di una prima collettiva dei 4 artisti bresciani già impegnati in una riflessione sul tempo. Nella sostanziale differenza formale e materiale proposta da questi maestri, vi è la comune ricerca del senso della temporalità (esperienza dell’anima e pretestuosa strategia convenzionale per il quotidiano) fino alla conclusione negativa di un non-tempo, inteso, quindi,
come eternità. La dimensione ciclica e incessante dell’essere informa tutte le cose, uomini compresi, e rende tutto sempre immutabile e immutato. La fine non è la fine e l’inizio non è mai davvero tale. Tutto sta in tutto e in ciascuno di noi vi è una contaminazione universale che ci allinea in una perfetta comunione materiale e spirituale. La tentazione della perdita dell’io è forte; la fascinazione induista e buddista è dietro l’angolo. Di certo, come diceva Pasolini all’interno di una sua celebre pellicola, “la verità non sta in un solo sogno: la verità sta in molti sogni”.
Mirko Bedussi, Alberto Goglio, Nicola Pedrali e Giuseppe Rumi sono docenti e colleghi presso il Liceo Artistico “Leonardo” di Brescia.

Massimo Rossi

GLI ARTISTI
MIRKO BEDUSSI

Mirko Bedussi nasce a Brescia nel 1966. Dopo aver frequentato il Liceo Artistico, nel 1988 si diploma in pittura presso l’Accademia di Belle Arti di Brera, a Milano. È docente di Discipline Pittoriche presso il Liceo Statale Leonardo di Brescia. Dal 1992 al 2018 ha esposto in numerose mostre personali e collettive, annoverando diversi riconoscimenti:
• Premio San Carlo Borromeo, Palazzo della Permanente, Milano, 1993
• Vincitore del Concorso per la realizzazione del monumento alla Capitaneria di porto, Catania,
1995
• Selezionato al Premio Colomba, Venezia, 2006
Le superfici delle sue opere, graffiate e lavorate a cera, sono definite con cura pittorica, fino ad apparire quasi levigate dal tempo più che dalla mano dell’artista. Il carattere, talvolta appena accennato, e la profondità dello sguardo dei suoi volti trasfigurano la materia in effigi mitologiche antropomorfiche: quasi reperti archeologici di un futuro potentemente trasfigurato.
mirkobedussi.tumblr.com

ALBERTO GOGLIO
Alberto Goglio nasce a Brescia nel 1967. Frequenta il Liceo Artistico e nel 1990 si diploma in pittura presso l’Accademia di Belle Arti di Brera, a Milano. È docente di Discipline Pittoriche presso il Liceo Statale Leonardo di Brescia. Dal 2003 al 2017 è titolare della Cattedra di Decorazione e della Cattedra di Storia della Decorazione moderna e contemporanea presso la LABA, Accademia di
Belle Arti di Brescia.
Dal 2017 al 2020 è Docente di Decorazione presso l’Accademia di Belle Arti di Verona.
Goglio unisce alla riflessione teorica sulla decorazione la progettazione di interventi artistici in spazi pubblici.
L’attività pittorica è testimoniata dalle numerose mostre personali e collettive in Italia e all’estero dove colleziona diversi riconoscimenti:
• Invito alla XXVII Biennale del muro dipinto di Dozza (BO), 2019
• Invito al Premio Bozzolo, 2015
• Ammissione al 32° premio Suzzara, 1989
La sua opera predilige la figura umana, sintetizzata attraverso un gesto pittorico che è testimonianza di un corrispondente movimento corporeo o di un moto interiore – un espressionismo introspettivo che diviene efficace mezzo di conoscenza di se stessi e del mondo.
www.albertogoglio.com | www.faredecorazione.it

NICOLA PEDRALI
Nicola Pedrali nasce a Palazzolo sull’Oglio, nel 1972. Dopo aver frequentato il Liceo Artistico Statale di Bergamo, nel 1996 si diploma con lode in Scultura presso l’Accademia di Belle Arti di Brera coi docenti Lydia Silvestri e Giancarlo Marchese.
Dal 2000 è Docente di Discipline Plastiche nei Licei Artistici di Brescia e dal 2006 è titolare di cattedra presso il Liceo Leonardo di Brescia. Vive a Sale Marasino, sulle sponde del Lago Sebino, dove continua a coltivare la sua passione per la scultura. Ha partecipato a numerose mostre collettive e personali, ottenendo diversi riconoscimenti:
• 1° Premio Moretto, sez. scultura, Brescia, 1997 / 1996 / 1994
• 1° premio scultura, concorso San Bartolomeo, Brescia, 1996
• Premio Salon 1 ’95, sezione scultura, dell’Accademia di Brera e Fondazione Pini, 1995
• Concorso “L’uomo e il gatto “, opera presente al congresso mondiale c/o Fondazione Cini a
Venezia, 1994
Pedrali è un artista antico, di ferro e fuoco, un concettuale alchimista che plasma la materia nella sua durezza e complessità verso forme di progressiva e chiara definizione del suo intento artistico. Nei suoi pezzi di ferro, magma, cemento, resina o legno d’ulivo, ossidi e pigmento d’oro, si coglie, nitida, quella naturale tendenza della natura imperfetta a raggiungere uno stato di perfettibilità.

www.pedraliscultore.it

GIUSEPPE RUMI
Giuseppe Rumi nasce a Palazzolo sull’Oglio nel 1962. Si diploma in pittura all’Accademia di Belle Arti di Brera (Milano) nel 1988. L’anno successivo si specializza come “Coordinatore d’immagine per la distribuzione commerciale”.
Attualmente insegna discipline grafiche e pittoriche al Liceo Leonardo di Brescia. Dal 1988 ha partecipato a numerose mostre collettive e personali in Italia e all’estero.
Tra i principali riconoscimenti conseguiti, ricordiamo:
• IX Premio Brera (Milano 1986)
• Premio di grafica Swylon (Milano1988)
• Premio “Grand Prix” Kobayashi Kose (Tokyo 1989/90)
È stato inoltre selezionato a:
• Premio San Carlo Borromeo, Museo della Permanente (Milano 1996)
• Premio Internazionale Lìmen Arte 2010 a Vibo Valentia
L’opera di Rumi è una sindone stratigrafica, dove il tempo è perenne flusso energetico che fluttua dalle sorgenti e scorre fino a stemperarsi in quieti fondali dorati o a inabissarsi in gore fangose.
Dal grande grembo, che tutto genera e a cui tutto ritorna, emergono ricordi e lontane consonanze: sono fossili, istantanee radiografiche o preziosi frammenti aurei di esistenze universali.

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GAME <> CARE

GAME <> CARE
STEFANO BOMBARDIERI

Dal 15 giugno al 29 settembre 2024

Una mostra a cura di Anna Lisa Ghirardi

con il Patrocinio di Comune di Iseo e il supporto di Poliedro Studio, Le Giraffe Noleggi e GARE82

Il passaggio da immagini leggere, giocose a tematiche più profonde e meditative è continuo nella opera di Stefano Bombardieri. Ci si può fermare a leggere le grandi bestie come monumentali figure da parco giochi o appropriarsi di uno sguardo più introspettivo e
conoscitivo della sua poetica.
Non manca una vena dadaista, giocosa e nemmeno il sentimento del contrario.
In relazione alla sua opera si deve pensare alla parola illusione, in questa lettura etimologica: in-ludere (scherzare) -ludus (gioco), in un contrasto tra apparenza e realtà.
Entrare nel suo studio, un grande capannone pieno di sculture in fase di realizzazione, di costruzione, è un po’ come entrare in un gioco. E il gioco è metafora del mondo.
Molti filosofi si sono soffermati sul questo tema, da Platone a Nietzsche. Per Eugen Fink, che ne ha scritto in più occasioni, citando anche Eraclito, il gioco umano, in particolare fanciullesco, può essere assunto come simbolo di quello cosmico. Ǫuesta attività per il
bambino è “sano mezzo di esistenza” e attraverso essa realizza la sua “apertura al mondo”.
Secondo il filosofo tedesco è infatti importante cercare di conservare quanto più possibile la spontaneità, la fantasia, l’iniziativa di chi gioca. Il gioco appartiene pertanto alla costituzione ontologica dell’esistenza umana ed è simbolo del mondo, giacché attraverso esso si manifesta il modo dell’uomo di rapportarsi al mondo e all’altro, perché ogni gioco ha un orizzonte di apertura.

Come Bombardieri afferma: l’arte è la sua medicina. Il linguaggio ludico cela, nell’apparente leggerezza, persino l’amarezza di uno sciroppo curativo.

Stefano Bombardieri (Brescia, 1968).
Figlio di scultore, affianca gli studi artistici alla frequentazione, sin da giovane età, dello studio del padre, Remo Bombardieri, dove affina le sue conoscenze tecniche.
Accanto alla realizzazione di sculture figurative, in prevalenza di grandi dimensioni, crea opere legate all’arte povera, all’arte concettuale e alla video-installazione. La sua ricerca artistica si sviluppa sulla riflessione, non senza suggestioni filosofiche, di alcuni temi, quali il tempo e la sua percezione, l’esperienza del dolore nella cultura occidentale, l’uomo e il senso dell’esistenza. Il suo lavoro parte dalla realtà tangibile per giungere a mondi interiori, universi fantastici.
A partire dagli anni Novanta espone in spazi pubblici e gallerie, prediligendo il dialogo tra opera e ambiente urbano.
Tra le sue installazioni si ricordano quelle collocate a Ferrara, a Faenza, a Bologna, a Saint Tropez e a Potsdam. Nella suggestiva cornice di Pietrasanta presenta nel 2009 la sua personale The animals’ count down. Partecipa inoltre alla 52a e alla 54a Biennale di Venezia. Lavora tra Italia, Francia, Germania, Svizzera, Inghilterra, Grecia, Libano, Stati Uniti ed Emirati Arabi.
Nell’anno accademico 2020-2021 è stato Docente di Scultura Pubblica Monumentale presso l’Accademia Santa Giulia di Brescia. 

 

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MARCO GRIMALDI. CODICE LUCE

Marco Grimaldi. CODICE LUCE

Dal 16 marzo al 21 aprile 2024

Una mostra a cura di Matteo Galbiati

In collaborazione con Giulia Andrea Gerosa
con il Patrocinio di Comune di Iseo

Da sabato 16 marzo a domenica 21 aprile 2024

Nell’ambito delle mostre che Fondazione l’Arsenale dedica agli artisti contemporanei, le sale dell’edificio storico si aprono a un nuovo allestimento che ospita le opere di Marco Grimaldi (1967), in occasione dell’esposizione personale curata da Matteo Galbiati.

 
Marco Grimaldi. Codice luce costituisce un cruciale momento di riflessione sulla ricerca dell’artista, poiché analizza — nei tre ambienti in cui si suddivide il percorso di visita — le differenti modalità della sua espressione artistica. Dal piccolo al grande formato, dalla tela singola al polittico, fil rouge della produzione di Grimaldi è l’attenzione posta al segno e alla luce. In alcune opere, quali i polittici di Chimica e luce, emerge una precisione gestuale matematica, tale da apparire artificiale: l’artista raffina il segno affinché diventi pura fonte luminosa. In altre invece, come l’inedito Ultimo sudario, prevale la necessità espressiva sulla razionalità, dando vita a opere in cui la luce diventa più liquida e spontanea, rimandando a immagini biomorfe.

Grimaldi trasforma la statica base tradizionale della pittura — la tela — in un campo agente, nucleo fuso e magmatico, dove il colore si pone in uno stato di continuo fermento. Questa interpretazione della pittura è valida per tutta la sua produzione, dai lavori della fine degli anni Novanta, particolarmente materici, sino a quelli odierni, più meditativi e leggeri; in tutti i cicli di opere di Grimaldi emerge sempre la cura peculiare rivolta al gesto. Il segno man mano si è evoluto, diventando più dolce, fino a quasi scomparire, lasciando spazio a pure linee di luce in cui le cremie sono attenuate.

A tal proposito annota Matteo Galbiati nel testo critico che accompagna la mostra: “La dialettica tra luce e ombra, costante significativa e significante della ricerca di Grimaldi, pare eludere un’endemica contrapposizione netta, agendo proprio in favore di un equilibrio pacificato tra le parti che si attua attraverso passaggi continui, dall’una all’altra, in cui i due opposti si legano in una continuità fluida, dinamica, consecutiva. Il fattore chiave, l’elemento che può in questa impresa che dilava forme e geometrie, è il colore interpretato nel tempo con la cura di una stesura mai immediata, mai casuale, mai istintiva. Le luminescenze e le ombrosità sono carattere di un pensiero su cui lungamente Grimaldi ha meditato e che considera allora la Pittura quale riflessione non solo incentrata sull’apparire e sul manifestarsi di qualcosa da scoprire, ma anche è votata al ricordo, a quelle esperienze individuali che, sensibili e sollecitate, se attivate si interrogano sulla memoria che torna e si ritrova in qualcosa di nuovo e diverso.”

Oggi, la superficie delle sue tele appare levigata, eppure non nasconde mai la gestualità che l’ha creata. Questa affiora silenziosamente dalle sfumature sapienti, dalle calcolate imprecisioni e dai contrasti coerenti.

Marco Grimaldi. Codice luce si presenta come una selezione attenta e calibrata di alcuni lavori particolarmente significativi dell’ultima produzione dell’artista, il quale desidera caricare la pittura astratta di vita, per poter esprimere e comunicare un’emozione concreta”.

 

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Marzia de Tavonatti. IL PESO DEL VUOTO

Marzia de Tavonatti. IL PESO DEL VUOTO

Dal 27 gennaio al 3 marzo 2024

Una mostra

Con il patrocinio del Comune d’Iseo

E il supporto di Poliedro Studio

 

Il peso del vuoto
Per spiegare la trasformazione della realtà e il mutamento dei corpi, Democrito nel 400 a.C. circa, sentì la necessità di ipotizzare l’esistenza del vuoto, di un ‘non qualcosa’, del nulla inteso come spazio. Pose gli atomi alla base della composizione della materia, il
sostrato indivisibile. Nel vuoto gli atomi si muovono, si incontrano e si scontrano.
Nel corso dei secoli, il vuoto rimane uno tra i concetti più enigmatici, pervasivi del pensare, sempre attuale pur nel mutare delle concezioni fisiche e filosofiche e si delinea sempre più come un altro nome dell’essere.
Il vuoto come concezione del movimento, del divenire, del tempo.
Nello scritto ‘Il vuoto: un’enigma tra fisica e metafisica’ si ipotizza che il nulla non sia di per sé ‘vuoto’ ma consista, usando il linguaggio della fisica contemporanea, in uno ‘stato di di minima energia’, uno stato fondamentale che riempie uniformemente lo spazio e con
il quale alla fine coincide.
L’Apeiron di Anassimandro, che consente l’esistenza e il dinamismo di tutti gli elementi nel tempo, la Chora platonica, un elemento primordiale oscuro ed indivisibile, il Sein di Heidegger come trasparenza che fa vedere, attrito che fa muovere, intero che rende
possibile la parte, l’etere della millenaria tradizione fisica e metafisica come sostanza che pervade tutto l’universo e dentro la quale si muovono i corpi, compresa la luce.
Ed infine, in contrapposizione al pensiero filosofico occidentale, la vacuità, concetto centrale del buddhismo.
Se la sostanza è per cosí dire piena, ricolma di sé, Sunyata (vacuità) indica invece un movimento di es-propriazione, ovvero svuota l’ente che si ostina in sé stesso, che si irrigidisce in sé stesso o in sé stesso si chiude. Lo immerge in un’apertura, in un’aperta
vastità. Nel campo della vacuità nulla si condensa in una massiccia presenza. Nulla si basa esclusivamente su sé stesso. Il suo movimento sconfinante ed espropriante raccoglie il monadico per-sé in un rapporto di reciprocità. La vacuità non rappresenta
però un principio genetico, una causa prima da cui sorgerebbe ogni ente, ogni forma. Non le è insita alcuna potenza sostanziale da cui scaturirebbe un effetto e nessuna frattura ontologica la solleva in un ordine superiore dell’essere. Non delinea alcuna trascendenza
precedente l’apparizione delle forme. Forma e vuoto stanno sullo stesso piano dell’essere. Nessun dislivello dell’essere separa la vacuità dall’immanenza fenomenica.
Il vuoto o il nulla del buddhismo non è dunque una semplice negazione dei fenomeni, o una forma di nichilismo o di scetticismo. Rappresenta piuttosto un’estrema affermazione dell’essere. Soltanto la delimitazione propria della sostanza, che crea tensioni oppositive, è negata. L’apertura, la gentilezza del vuoto significa anche che l’ente di volta in volta presente non solo è nel mondo, ma che nel suo fondo è il mondo, che nel suo strato profondo respira le altre cose o procura loro lo spazio di soggiorno. Cosí in una cosa abita
il mondo intero.
In questo racconto fotografico si cerca di contrapporre i due pensieri filosofici, prima quello occidentale, gli scatti degli spazi di aggregazione, delle piazze, i mercati, i bar, la litoranea, durante il covid sono stati depauperati del loro significato e sono divenuti spazi
liminali, consegnandoci un senso di vuoto interiore, uno smarrimento che ha lasciato cicatrici in tutti noi; nella seconda parte le enormi distese del Ladakh che, nel loro essere disabitate, tutto suggeriscono fuorché uno svuotamento del loro significato e con il loro
vuoto trasmettono al contrario pienezza.
Parafrasando Borges:
‘Il vuoto è una tigre che mi divora, ma io sono quella tigre’. dell’Io, all’interno di quella trama sottile che collega tutte le cose.

 

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ARTISTI CONTEMPORANEI: Tiziano Ronchi TRACCE. Mycosium

Tiziano Ronchi TRACCE. Mycosium

Dal 2 dicembre 2023 al 7 gennaio 2024

Una mostra a cura di Camilla Remondina

Con il patrocinio del Comune d’Iseo

In collaborazione con Poliedro Studio, Assisi Raffineria Metalli Spa, IT’S, Inoxdep Srl e Lomopress Srl


La ricerca di Tiziano Ronchi (Brescia, 1995) si concentra sul concetto di traccia – infatti questo termine riecheggia spesso nei titoli delle sue mostre, compresa questa – intesa come simbolo di rapporti ed emozioni, ma anche di ricerche e percorsi di conoscenza: è ciò che lasciamo alle nostre spalle, ciò che imprimiamo oggi sul nostro cammino per riscoprirlo un domani, ciò che è sempre stato dentro di noi.

La Natura è il segno intrinseco della nostra esistenza, la Madre da cui tutto ha avuto inizio e da cui continua ad avere origine la vita. Oltre ad essere le nostre radici, è anche la guida prediletta dall’artista per indagare i rapporti umani, non solo tra l’uomo ed essa, ma anche tra l’Io e l’Altro e tra l’individuo e la propria essenza.

La mostra, intitolata TRACCE. Mycosium, rappresenta il percorso intrapreso dall’essere umano sin dalla sua nascita. Si tratta di un viaggio nel mondo, segnato inevitabilmente da incontri e legami con l’Altro che permettono di mantenere il contatto con l’esterno, e al tempo stesso un viaggio interiore, di continua scoperta e riscoperta di sé stessi.

Per rappresentare gli elementi e le forme della Natura, quale fil rouge della vita, l’artista si avvale dell’utilizzo dei funghi, i quali infatti assumono analogamente il ruolo di accompagnatori durante la visita, emergendo opera dopo opera. Questi organismi vegetali si caratterizzano per il loro micelio da cui prende il titolo questa personale, vista la sua struttura metaforicamente puntuale rispetto alla ricerca dell’artista. Questa rete di sottili radici, estese ed articolate, prolifera nascosta nella profondità del terreno, continuando a generare nuova vita e creando un tessuto connettivo in grado di unire e trasmettere impulsi a tutta la vegetazione. Allo stesso modo i funghi presenti nelle opere, estendendosi per tutto il percorso e costituendo un substrato coerente, mandano messaggi e suggestioni che permettono di percepire maggiormente il legame tra l’Io, l’Altro e la Natura. Come dei mantra, queste opere si servono della ripetizione e della ridondanza per far concentrare l’attenzione e quindi scavare più in profondità all’interno dell’Io, all’interno di quella trama sottile che collega tutte le cose.

Nella prima sala dell’Arsenale, l’uomo si eleva dalla terra in cui viene generato: attraverso un processo di aggregazione, possibile grazie al micelio, in lui si fondono gli elementi della Natura per giungere alla formazione del corpo e quindi alla nascita.

Proseguendo nella seconda sala, le opere proposte rappresentano come i soprusi dell’essere umano nei confronti della Natura trovino sempre una ricongiunzione pacifica con essa. Le ferite, le tracce, vengono rigenerate diventando frammenti puri di materia che il micelio ricompone, come un puzzle, legando indissolubilmente il passato al presente.

Nell’ultima sala, Ronchi dimostra come la consapevolezza di Sé, la riconnessione con l’Io, sia difficile da raggiungere; è un sentiero in salita da affrontare passo dopo passo, sempre uguale e costante: l’esercizio, infatti, permette di innalzare la mente percorrendo una rilettura della componente più materiale dell’individuo.
Questa ricerca termina, o forse si fa ancora più complessa ma necessaria, quando si comprende il vero strumento di ricongiunzione tra l’Io, la Natura e l’Altro: l’ascolto.
Solo così è possibile intraprendere la strada per la conoscenza dello Spirito.

 

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ARTISTI CONTEMPORANEI: DUCCIO GUARNERI. Grey dust

DUCCIO GUARNERI. GREY DUST

Dal 14 ottobre al 19 novembre 2023

Una mostra a cura di Camilla Remondina

Con il patrocinio del Comune d’Iseo

In collaborazione con Poliedro Studio

 

Polvere grigia come quella utilizzata per realizzare il cemento, simbolo dell’uomo che sovrasta la natura, ma anche come quella che lasciamo dietro di noi, quando la natura si riappropria di ciò che le è stato sottratto. Siamo solo di passaggio su questo pianeta e tutto ciò che creiamo è destinato alla decadenza, alla fine: Memento, homo, quia pulvis es, et in pulverem (dal latino: “Ricordati che sei polvere e in polvere ritornerai”).

Il grigio dei paesaggi antropizzati e gli elementi tipicamente edili, quali cemento, tubi e impalcature – usati come parte costitutiva, se non primaria, nelle opere oppure come supporti funzionali – segnano parte della ricerca di Duccio Guarneri (Cremona, 1994) che nella geometria e nell’ordine costruisce, quasi fosse un architetto, delle strutture utopiche in forte contrasto con la natura in cui sono inserite ad indicare le inquietudini dell’uomo, le sue ansie e le sue paure, le stesse che l’artista vive nella società odierna. Non è la natura ed esserci ostile, siamo noi ad esserlo nei suoi confronti.

Nella prima sala, luoghi utopici, abbandonati e disturbanti accolgono lo spettatore in una realtà al limite con la dimensione onirica, dove viene da chiedersi “C’è qualcuno qui?”. Qualcuno c’è, nell’angolo della stanza, in Cerchio, una figura resta in silenzio, sospesa nel tempo, mentre ripercorre su tutto ciò che ha imparato, tutto ciò che ha provato, per continuare a creare, immaginare: è la mente umana.
Con il ciclo P13 l’artista rappresenta scenari catastrofici, dove l’eccessiva contaminazione dell’uomo – evocata anche dalla fredda, pesante e opprimente cornice di cemento – ha guastato paesaggi perfetti, così da far riflettere sulle tematiche ambientali.

Proseguendo nella seconda sala volti semi-sciolti, scheggiati o, ancora, incrinati, teschi deformi e alberi secchi generano una sensazione di inquietudine che pervade lo spazio espositivo, un presagio che però è già scritto. È questo il destino dell’uomo, ma, come lo stesso artista dichiara: “Ogni condizione possiede un’antitesi, ma un’entità non può esistere senza l’altra, essendo la vita e la morte complementari. Una condizione è presente anche per impreziosire il suo opposto”.
Il teschio di capro (o becco), presente in mostra, ha dato origine al ciclo inedito Soon Will Be Cool Enough To Build Fires. Per l’artista questo oggetto bizzarro è stato il punto di partenza per una riflessione più ampia sull’errore, sull’anomalia che diventa particolarità, unicità, e racconta una storia speciale, generando curiosità e fascinazione.

Nell’ultima sala è presentata la componente più installativa del lavoro di Guarneri. M.A.D.E.R. è composta da matrici – il cui termine, non a caso, condivide la stessa radice del titolo, di madre – utilizzate per la lavorazione del ferro secondo la tradizione artigianale di Bienno, in Valcamonica, dove l’artista ha realizzato una residenza. Sono materiali di recupero segnati dal tempo, il cui scopo era plasmare e contenere i dischi di ferro durante la cottura per renderli altro.
Se Subsidence è metafora dell’essere trascinati in balia della corrente, del movimento imprevedibile, per via della struttura modulabile di cui è costituita che costantemente cambia e distorce i suoni riprodotti al suo interno, l’opera di fronte, Impasse (I will either find a way, or Im gonna make it myself), è il tentativo di contrastare questa impasse, appunto, che sembra non avere via di uscita, è l’invito dell’artista per sé stesso e per gli altri a “trovare un modo, o inventarne uno” (dalla frase latina attribuita al comandante cartaginese Annibale).

Duccio Guarneri

Duccio Guarneri, nato a Cremona nel 1994, ha conseguito il diploma triennale in Decorazione Artistica (2018) presso l’Accademia di Belle Arti SantaGiulia di Brescia e quello biennale in Arti Visive Contemporanee (2021) nella medesima Accademia.

Nel 2023 vince il Premio speciale della giuria – sezione Pittura di Kahleidon Festival – Latina, nel 2022 il Primo premio – sezione Scultura del Premio d’Arte di Città di Sarezzo e nel 2021 il Primo premio «Eros e Thanatos» a cura dell’Associazione Filosofi Lungo l’Oglio – Ospitaletto (BS).
Tra le recenti mostre si segnalano: nel 2023 Nem-jelenlét / Non Presence, a cura di di Tünde Török, a MyMuseum Gallery – Budapest, 20+ a call for drawings, a cura di Camilla Remondina e la direzione artistica del PREMIO COMBAT, a Cremona Art Fair; nel 2022 Nodi, a cura di Anna Piergentili, a Villa Galnica – Puegnago del Garda, EXPLO3, a cura di Anne Michelle Vrillet e Barbara Crimella, a Casa Valiga – Bienno, Esposizione Premio d’Arte di Città di Sarezzo, a Palazzo Avogadro, Et Lege. La sapienza conviene, a cura di Francesco Visentini e dell’Unione Cattolica Artisti italiani, alla Chiesa di San Zenone all’Arco – Brescia; nel 2021 ReA! Fair, REA Arte e Maryna Rybakova, alla Fabbrica del Vapore – Milano, In Absentia, a cura di Natalie Zangari, Giulia Palamidese e Paolo Sacchini, a Temù, Dualità nel trionfo. Una conquista o una perdita, a cura di Mino Morandini e del Borgo degli Artisti di Bienno, a Casa Valiga – Bienno; Kenopsia, a cura di Natalie Zangari, a Palazzo Palazzi – Brescia; nel 2020-2021 GestoZero. Istantanee 2020, a cura di Ilaria Bignotti, ACME Art Lab – Alessia Belotti, Melania Raimondi e Camilla Remondina -, Giorgio Fasol e Matteo Galbiati, a Museo di Santa Giulia (Brescia), Museo del Violino (Cremona) ed Ex chiesa di Santa Maria Maddalena (Bergamo).

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ACQUARIATERRAFUOCO. L’opera di Helidon Xhixha sul Lago d’Iseo

ACQUARIATERRAFUOCO
L'opera di Helidon Xhixha sul Lago d'Iseo

Dal 24 giugno all'1 ottobre 2023

Una mostra a cura di Ilaria Bignotti e Camilla Remondina

Con il patrocinio e sostegno del Comune d’Iseo

In collaborazione con Imago Art Gallery, Fondazione Cav. Lavoro Alberto Giacomini, Poliedro Studio e Le Giraffe Noleggi

 

Il Lago d’Iseo, nel territorio del Basso Sebino del Comune di Iseo e sul territorio di Clusane, ospita una mostra diffusa a carattere ambientale di sculture monumentali dell’artista Helidon Xhixha (Durazzo, 1970) e una sua mostra personale all’interno delle sale espositive della Fondazione l’Arsenale composta da opere scultoree a parete, bozzetti e una selezione di pubblicazioni consultabili.
È la prima volta che lo scultore di fama internazionale arriva a Iseo e sul suo territorio, ma anche più ampiamente nella Provincia di Brescia, dove mai era stato prima celebrato il suo linguaggio straordinario che adopera e manipola il metallo come se fosse un fluido alchemico capace di assumere forme e dimensioni di straordinaria potenza.
Sculture che dialogano con l’acqua e la terra, le architetture e la natura del paesaggio lacustre, grazie alle forme del metallo forgiato da Xhixha, capace di renderlo corpo rilucente e riflettente che si adagia armoniosamente nell’ambiente, svetta nello spazio e chiama a sé il paesaggio, coinvolgendo il pubblico ed il paesaggio in un rapporto di reciproco sguardo. Le sue opere, esposte nei più prestigiosi musei e siti culturali internazionali nel corso di oltre vent’anni di carriera, approdano sul Sebino con una leggiadra potenza e una maestosa sensibilità: alchimie della terra, raccontano una storia millenaria che pone in luce, oggi, anche i temi dell’ambiente e del suo rispetto. Pensiamo al grande Iceberg, che appare sul lungolago di Iseo, visibile dalla grande
passerella pubblica, e dichiarando la scottante centralità dei temi del clima e del global warming, ci invita a un percorso di conoscenza e di consapevolezza del bello naturale che ci circonda e che dobbiamo difendere.
L’acciaio, materiale di elezione di Xhixha, è materia resiliente che lo scultore sa piegare e modulare, estroflettere e curvare per assecondare le sue visioni plastiche: ora diventa colonna che pare accogliere le voci del mondo, obelisco dei valori di condivisione e umanità, come nel caso delle sculture Abbraccio di Luce e Lancio di Luce a Iseo e Obelisco di Luce a Clusane, ora si fa specchio della comunità, cassa di risonanza dei movimenti e dei gesti degli abitanti, come nel caso dell’opera Satellite nel passaggio dei portici di Piazza Garibaldi a Iseo.
Un progetto che si pone quale imperdibile appuntamento durante l’estate del 2023 in un ideale dialogo con quella grande, pioneristica installazione The Floating Piers di Christo: a sette anni di distanza, non solo la terraferma, ma anche l’acqua del lago di Iseo accolgono installazioni scultoree, in un percorso che sa coinvolgere il pubblico in un’esperienza emozionante e inattesa.

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FARE I CONTI CON IL RURALE. Edoardo Caimi, Marina Cavadini, Lucia Cristiani, Alice Faloretti, Oliviero Fiorenzi, Manuel Gardina, Nicola Ghirardelli, Edoardo Manzoni, Giorgio Mattia

FARE I CONTI CON IL RURALE

Dal 29 aprile all'11 giugno 2023

Una mostra a cura di Arnold Braho in collaborazione con Camilla Remondina e con il Patrocinio di Comune di Iseo e della galleria The Address

 

“Era il mondo ormai a essergli diverso, fatto di stretti e ricurvi ponti nel vuoto, di nodi o scaglie o rughe che irruvidiscono le scorze, di luci che variano il loro verde a seconda del velario di foglie più fitte o più rade, tremanti al primo scuotersi d’aria sui peduncoli o mosse come vele insieme all’incurvarsi dell’albero. Mentre il nostro, di mondo, s’appiattiva là in fondo, e noi avevamo figure sproporzionate e certo nulla capivamo di quel che lui lassù sapeva […]” (Italo Calvino, Il barone rampante, 1957)

 

Per fare i conti con il rurale e in senso più ampio con la natura, che è la principale attrice all’interno della ricerca degli artisti presenti nel progetto espositivo, bisogna fare un cambiamento di prospettiva verso le cose che costituiscono il mondo. Le modalità tramite cui percepiamo l’ambiente rurale e le strutture ecosistemiche, che compongono la nostra concezione di territorio, sono fortemente influenzate dalle scale di relazione a cui dobbiamo sottostare, rapporti che sono spesso disallineati a causa della mancanza di coordinate culturali per poterci orientare all’interno di queste conoscenze e pratiche. I meccanismi culturali che abbiamo prodotto ci consentono di decodificare la natura solamente attraverso l’osservazione di frammenti di realtà, permettendoci così di percepirla principalmente come oggetto di consumo, piuttosto che di conoscenza. Come orientarsi allora all’interno di queste cartografie naturali? Come vivere il corpo? Come concepire diversamente il tempo e la memoria? Come pensare invece le relazioni e i desideri? Come essere insieme?

La moltitudine di elementi che caratterizza la cosmologia di ricerche presenti all’interno del progetto Fare i conti con il rurale è prodotta dall’insieme delle relazioni poietiche, politiche, sensoriali, cognitive, emotive, e, grazie ad un certo grado di sensibilità verso la natura, viene inteso come luogo per la produzione del contemporaneo. Le ricerche si propongono come esperienza accumulata all’interno di un determinato contesto, con opere che, attraverso i vari linguaggi proposti, fondano la loro estetica e modalità d’espressione in un cambio di scala, capace di allinearsi a quello della natura, al suo tempo, ai suoi concatenamenti, alla sua memoria.

 

Il paesaggio come lascito dell’impronta collettiva e la decodificazione di cartografie mnemoniche, quanto l’analisi delle possibilità insite all’interno di questo tessuto stratificato, si materializzano in termini scultorei e installativi all’interno della ricerca artistica di Lucia Cristiani (Milano, 1991), mentre per Nicola Ghirardelli (Milano, 1996) la matericità opera sulla natura mediante tecniche e saperi antichi che riemergono ricontestualizzando strutture simboliche desuete, dando nuovo significato e inserendo in una nuova storia immagini ed elementi naturali.

Il focus ravvicinato dei movimenti e delle strutture di esseri vegetali e animali eseguiti da Marina Cavadini (Milano, 1988) mettono in luce la sensibilità e la fragilità degli ecosistemi, fornendo una rappresentazione di resilienza intrinseca in alcuni esseri viventi presenti in ambienti ostili. Allo stesso tempo Edoardo Manzoni (Milano, 1993) pone al centro della sua ricerca un’analisi dei rapporti di interdipendenza tra uomo e animale, in questo sono la caccia e le pratiche millenarie di sopravvivenza ad essere analizzate, e di conseguenza le successive imitazioni, la mappatura dei territori, la progettazione di strumenti.

Oliviero Fiorenzi (Osimo, 1992) utilizza l’apparato semiotico per reintrodurre strumenti di comunicazione legati al gioco, un linguaggio dell’infante che opera come dispositivo di contatto con gli elementi naturali stessi come cielo, terra e acqua.

Per Edoardo Caimi (Milano, 1989) il linguaggio fonda le sue radici nel primitivo, nel tecnologico e nel tribale, attingendo alle culture delle periferie suburbane e rurali, fondendosi attraverso materiali industriali ed elementi naturali, in una cornice narrativa che immagina strumenti di sopravvivenza all’interno di un contesto post-apocalittico.

L’immaginario all’interno delle opere pittoriche di Alice Faloretti (Brescia, 1992) sembra porsi come la concatenazione tra vari tempi, la proposizione di una continuità all’interno dell’opera che guarda a passato, presente e futuro rimodulandone i principi di base, dove un immaginario dettato dalle trasformazioni della natura e degli agenti atmosferici si fonde con quello dell’esperienza personale e della memoria. Allo stesso tempo Giorgio Mattia (Milano, 1997) attua la sua ricerca verso un duplice fronte all’interno del proprio lavoro: da un lato una vigorosa sperimentazione verso strutture a sostegno di immagini fragili, dall’altro una minuziosa attenzione alle politiche della rappresentazione della natura e delle sue ipotetiche trasformazioni nel tempo.

Infine Manuel Gardina (Brescia, 1990) focalizza la ricerca sugli elementi naturali traducendone l’immagine attraverso l’utilizzo delle nuove tecnologie e media, riproducendo attraverso linguaggi programmatici una riflessione del confine tra naturale e artificiale, ponendo in discussione le relazioni emerse all’interno del discorso contemporaneo fra i due elementi.

 

Fare i conti con il rurale si manifesta come un progetto di ricerca, proponendo linguaggi pratici che operano all’interno del panorama italiano con l’intenzione di visualizzare modalità d’azione e di riproduzione. La necessità è quella di apprendere, dalla natura e dal rapporto con essa, saperi dimenticati, espandendo l’immaginario a forme e formati che non esistono all’interno delle istituzioni e cornici contemporanee. Lo sguardo si situa così con una certa radicalità all’interno di posizioni sociali che fondano le loro conoscenze ai margini, contribuendo a modalità di sostegno, e allo stesso tempo rivendicando modalità di esistenza dei “commons” e immaginandone di nuovi.

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ARTISTI CONTEMPORANEI: FABIO LOMBARDI. Thanatomorphose

FABIO LOMBARDI. Thanatomorphose

Dall'11 marzo 2023 al 16 aprile 2023

Una mostra a cura di Alice Vangelisti e con il Patrocinio di Comune di Iseo e di Associazione falía*

Lo spettacolo della tanatomorfosi, cioè della decomposizione della carne, è motivo di ribrezzo e paura, in quanto intesa come attimo ultimo e ripugnante di distruzione, l’annientamento finale e irreversibile dell’Io fisico. Andrebbe – e a tutti gli effetti va – però immaginata anche come un passaggio, un’attesa parte di un processo ciclico di eterno ritorno: è proprio in questo senso che Lombardi rivede l’orrore distruttivo della decadenza e ce la mostra come un puro atto di creazione, che dall’odore putrido di morte innalza una sublimata rappresentazione di nuova vita.
Il lavoro di Fabio Lombardi si pone, infatti, in quella sottile linea tra la vita e la morte, mostrando l’inesorabile processo di mutamento che si pone nel mezzo, in bilico costante tra i due diversi stadi dell’esistenza umana.
Emblema di questo cambiamento è il corpo, terreno fertile per accogliere e raccogliere le tracce di un’inevitabile decadenza, che mostra però allo stesso tempo una rinnovata forma di bellezza, la quale sorge dall’oscurità e dalla putrefazione per dare vita a preziose composizioni sospese tra le pieghe della fragilità umana.
In questo senso, la mostra si fa portatrice delle fasi del mutamento, ispirandosi in particolare ai processi alchemici, che mirano a sublimare la materia in una forma sempre più alta e perfetta, raggiungibile solamente attraverso la corruzione della stessa. Per questo le muffe e i microrganismi protagonisti dei lavori di Lombardi hanno potenzialmente una duplice funzione: prima di tutto quello di corrompere la carne, ma allo stesso tempo, andando oltre l’orrido odore di putrido, sono in grado di generare una rinnovata immagine della bellezza.
Nelle preziose composizioni di Lombardi appaiono così questi corpi, sospesi in atmosfere cariche di estatica tensione, che si disfano sotto i nostri occhi, incarnando perfettamente il loro continuo e inarrestabile mutamento. Così finalmente dalla materia putrida e decadente si eleva in un delicato grido una potenzialmente infinita nuova vita e la decadenza e la morte sono glorificati per il loro contributo nell’inevitabile processo di metamorfosi. Ed è proprio qui, nell’interregno di dolorosa creazione e affascinante distruzione, in cui coesistono incanto e disperazione, che risiede la vera essenza della bellezza ricercata dall’artista.

Fabio Lombardi
Fabio Lombardi nasce a Gavardo nel 1993, attualmente vive e lavora tra la provincia di Brescia e di Trento.
Si diploma in Pittura presso l’Accademia SantaGiulia di Brescia.
Anatomia, filosofia e antropologia sono la matrice della sua ricerca artistica, che, attraverso l’utilizzo di diversi media, celebra la decadenza, come processo di sublimazione della forma e della materia, e il suo legame con la sessualità.
Così pittura, disegno, arte video e digitale, scultura e installazione diventano campo fertile per la germinazione di forme liminali che trascendono il definito, per fluttuare nella realtà dell’incorporeo.
Il legame con la Francia, dovuto alle origini della nonna paterna, lo introduce allo studio della filosofia francese del ‘900, approfondendo tematiche come Erotismo, Estetica ed Esistenzialismo, fondamentali per il suo percorso di crescita, e la struttura della sua visione.
Tra le mostre recenti si segnalano: nel 2021 Ligabue: la figura ritrovata, a cura di Matteo Galbiati e Nadia Stefanel, Fondazione Antonio Ligabue, Palazzo Bentivoglio (Gualtieri, RE). Inferno: oltre l’abisso, a cura di Matteo Vanzan, Palazzina Storica (Peschiera del Garda) ed Ex Cinema
Cristallo (Grado). Ivy, a cura di Matteo Galbiati e Felice Terrabuio, MiMuMo (Monza).
Nel 2019 (In)stanze d’incontro, a cura di Alice Vangelisti, Villa Damioli (Pisogne, Bs).

 

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