Patrizia Benedetta Fratus
INNO A VENERE
Dal 3 al 25 novembre 2024
Una mostra a cura di Barbara Pavan
in collaborazione con La rete di Daphne
con il Patrocinio di Comune di Iseo
Inno a Venere, proemio, la parte introduttiva di un orazione, l’inizio di una storia, da Lucrezio a Botticelli sempre Venere, neoplatonica rappresentazione di bellezza, colta nel nascere a nuova vita. Bellezza, nascita, altra storia, quella di Komal, e del tragico episodio che l’ha sfigurata parzialmente in volto e su buona parte del corpo, ma non è di questo che vogliamo parlare. Lei è giovanissima e ha deciso che non passerà la sua vita da vittima. Mi ha chiesto di raccontare la sua bellezza, di rendere le cicatrici della sua pelle una mappa, un altro modo di percorrere, farne proemio d’altra narrazione
Grazie a Rete di Daphne è avvenuto il nostro incontro e sempre grazie a Rete di Daphne continua questo nostro percorso a sostegno di Komal.
Patrizia Benedetta Fratus
PATRIZIA BENEDETTA FRATUS ha dedicato anni a pratiche artistiche partecipate e relazionali, con particolare attenzione alle declinazioni della prevaricazione, in primis nei confronti del genere femminile. In questo terreno è germogliata la sua ricerca delle ragioni e delle dinamiche che sono alla radice della violenza – non solo verso il singolo individuo o gruppo etnico o comunità, ma anche nei confronti della natura – e che derivano da un costante processo di svilimento e desacralizzazione, di trasformazione del soggetto in oggetto; meccanismi generati, verosimilmente, da una successione di cesure e dualismi contrapposti – tra l’uomo e l’ambiente, tra natura e cultura, tra spirito e materia. Tutta la storia del pensiero occidentale – che caratterizza ormai in gran parte la cifra del mondo globalizzato – è, in effetti, una storia di prevaricazioni. La pratica artistica è per Fratus un atto della possibilità: se l’Arte non è parte integrante della vita e dunque in grado di agire e interagire per influire su di essa, per trasformarla, quale senso essa può ancora avere nell’era della comunicazione, dell’AI, della virtualizzazione del mondo?
Per poterla cambiare, è necessario osservare la realtà da punti di vista differenti e divergenti e in questa visione dell’arte rientra INNO A VENERE, un percorso che si snoda tra opere che hanno nella possibilità e nella trasformazione il loro focus.
Un racconto che si sviluppa intorno all’opera omonima, culminando in una riflessione sulla potenza del cambiamento, dell’evoluzione del pensiero e della visione – esistenziale, culturale, sociale, individuale e collettiva. Patrizia Fratus, attraverso questo corpus di opere, sovverte e ricompone il significato di bellezza e di sacro, dialogando con tutte le voci – anche quelle silenti – del passato e del presente, ridisegnando le coordinate future di una narrazione che non appartiene – se non in parte – ad alcuna delle storie già scritte, ma che si apre sempre e comunque a nuove possibilità, inaspettate ed inesplorate.
Partendo da NAOS, una serie di vasi-scultura ibridi, dove nella commistione tra fili e terra, nelle forme femminili tonde e cave, emerge un’allusione all’archetipo della Grande Madre e un’eco di divinità arcaiche; opere in cui materia e spirito si riconciliano, che sembrano in ascolto della polifonia dell’Universo ma prendono corpo dalla creazione del gesto artistico che è profondamente umano. Il sacro abitava i templi antichi quanto il corpo femminile, attraversato dal trascendente nella sua possibilità di dare forma alla vita. La sacralità, scriveva Cristina Campo, risiede in quel vuoto estatico in cui si compie il destino, e Fratus, nel modellare i suoi vasi, rende palpabile questo senso di sacralità che appartiene a ogni vita.
Il percorso continua con LEI ERA, un’installazione immersiva di centinaia di figure femminili in vetro soffiato, sospese a formare un soffitto di cristallo, termine con cui si indica convenzionalmente quella barriera invisibile che impedisce la piena emancipazione delle donne in particolare in percorsi di carriera e verso posizioni di potere. Fratus ci invita a sovvertire la nostra percezione della storia: cosa accade se quel soffitto si rivela in realtà fatto di una moltitudine di donne di cristallo? Il soffitto di cristallo non è qualcosa da rompere, ma una realtà da riscoprire e comprendere. La luce, che si riflette su queste figure in vetro, moltiplica le loro ombre, creando una narrazione collettiva che invita a superare i dualismi e le gerarchie imposte. La Storia, frammentata e mutilata di tante voci, si arricchisce qui di nuove prospettive, rivelando che non raramente siamo noi stesse il limite del nostro potenziale.
Con INNO A VENERE, l’opera che dà il titolo alla mostra, l’artista ne reinventa il mito classico. Riprende qui la posa e gli attributi della famosa Nascita di Venere di Botticelli, ma ne sovverte il significato: la bellezza di questa Venere contemporanea non è più idealizzata e perfetta, ma reale, segnata da cicatrici che testimoniano le prove attraversate. I segni della vita diventano mappa e valore, mentre l’oro della bellezza mitologica lascia spazio a una patina che esalta l’autenticità del corpo femminile. La Venere di Fratus non è più un mito irraggiungibile, ma un paradigma di una bellezza diversa, radicata nell’esperienza umana e capace di riscrivere (o liberare dai) i canoni – anche estetici – del passato.
Il processo di muta ovvero di trasformazione, essenziale in questa riflessione, emerge anche in PAROLE IN CORPO, due grandi sculture di carta filata, dove le parole stampate vengono destrutturate e rielaborate. La figura, in perenne divenire, è ibrida – donna, serpente, albero – in una metamorfosi che suggerisce una continua rinascita. La muta del serpente diventa simbolo di immortalità e di potenza femminile, richiamando antichi simboli sacri, dal bastone di Asclepio alla filosofia tantrica.
Allude ad un’iconografia mutuata dalla mitologia classica – integralmente reinterpretata con nuovi significati – FACCIA A FACCIA, un’opera tessuta a uncino, che rappresenta una testa di Medusa senza volto, e che restituisce all’osservatore il riflesso di sé stesso. Guardandoci dentro, infatti, scopriamo la pluralità della nostra esistenza: siamo intrecci di elementi in continua trasformazione, simili a radici che si sviluppano in tutte le direzioni. La metamorfosi è in effetti questo, la coesistenza di possibilità diverse in una stessa vita, un processo dinamico che ci porta verso il cambiamento e la rinascita.
Un tema che ritroviamo in POTREMMO, una scultura morbida che appare ripiegata su se stessa, evocativa della nostra incapacità di sostenerci e riconoscerci. È un invito alla consapevolezza, a liberarci dalle catene invisibili che ci limitano.
La forza del cambiamento che è ampiamente raffigurata in DRAGA BIANCA, un grande arazzo che restituisce una narrazione femminile in risposta alla tradizionale lettura del drago nella leggendaria storia di San Giorgio; invertendo il paradigma di prevaricazione e annientamento della diversità, la Draga diventa qui simbolo di una nuova cosmogonia, una speranza di riconciliazione e di una una narrazione altra.
Patrizia Benedetta Fratus
Artivista attiva da anni sulla scena nazionale ed internazionale, considera l’arte come strumento di cambiamento ed evoluzione individuali e collettivi, sociali e politici. Artista multimaterica, usa medium di scarto per avviare opere partecipate e relazionali coinvolgendo per la loro realizzazione, coloro che facendole ne diventano parte viva. Cerca nelle mappe dei linguaggi le radici dell’immaginario possibile oltre gli stereotipi. Nelle parole sta il potere di generare mondi, infiniti mondi. Intende la pratica artistica come strumento di sperimentazione intellettuale ed empirica di consapevolezza, autosufficienza e autodeterminazione, elementi necessari per l’emancipazione umana. Nata a Palosco nel 1960 si è formata all’Istituto Marangoni di Milano, lavorando poi nella sartoria del Teatro alla Scala. Nel 2004 debutta come artista a Parigi nella Galleria Edgar le Machand d’Art. Dal 2005 espone in gallerie in Italia e all’estero da Bergamo, a Brescia, a Milano, Londra e Parigi. Vince il Premio Nocivelli ed è finalista al Premio Cairo nel 2009. Realizza la prima “Cometumivuoi”, una bambola nata dalle continue sollecitazioni della cronaca di femminicidio. Dal 2012 lavora a progetti di arte relazionale e ambientale collaborando anche con case di accoglienza e scuole. Nel 2015 realizza l’opera monumentale d’arte relazionale “VivaVittoria” a Brescia. Ha esposto in Italia, Europa, Stati Uniti.
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